In caso di pioggia guardate lontano
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In caso di pioggia guardate lontano

In giro per Merano e dintorni

 Nell’introduzione che apre I promessi sposi, Alessandro
Manzoni utilizza un espediente letterario e dichiara che
la storia che si appresta a raccontare è una trascrizione
di un manoscritto secentesco. Manzoni ricorre a questa
invenzione per deresponsabilizzarsi rispetto alla
trattazione critica di alcuni fatti storici narrati nel
romanzo, fatti che in maniera analoga si riproponevano
due secoli dopo, al tempo in cui il suo capolavoro era
stato scritto.

L’espediente del manoscritto serviva a Manzoni anche per
dare maggiore verosimiglianza alla storia, così da permettere
al pubblico di immergervisi senza remore.
Immergersi, verbo totalizzante che implica il bagnarsi e
intridersi: esperienze totali e senza mezze misure. L’acqua,
in forma di gocce che cadono dal cielo, è il leitmotiv di
alcune storie verissime che vi attendono qui sotto. Sono fatti
da conoscere e (ri)vivere di persona seguendo le tracce che
la narrazione vi mostra, visitando i luoghi e immaginandoli
animati dalle e dai protagonisti.
Ciò che leggerete sono alcune testimonianze di fatti e
dialoghi realmente avvenuti: più o meno di recente, durante
giornate piovose, a cavallo tra la stagione fredda e quella
calda, e in qualche caso forse anche tra quella calda e
quella fredda. Vicende non epocali, scorci di quotidianità
straordinarie, come quelle che si possono vivere durante una
vacanza o, abitando a Merano e nei suoi dintorni, decidendo
di dedicarsi del tempo.
Forse queste pagine, con le loro parole e le loro illustrazioni,
le potreste strappare dalle altre, piegare e mettere nella tasca
dell’impermeabile. Potreste anche infilarle in una busta di
plastica trasparente, come fanno i cicloturisti e chi viaggia
per fiume in canoa. È carta robusta e l’inchiostro non stinge
e macchia; magari vi piacerà fare una corsa contro il tempo
e leggere queste righe prima che il foglio faccia fatica, ormai
intriso di pioggia, a restarvi intero tra le mani.

Piove. Il tempo passa lento per Gerold e
Theodor, che se ne stanno appoggiati alla
parete est della torre delle Polveri ormai
da due ore. Stanno a guardia del deposito
di polvere da sparo e il fatto che diluvi dà
loro un senso di sicurezza. Il primo avrà
trent’anni, grande e grosso, spalle larghe
quanto i fianchi che scendono dritti, è un
armadio. Il cappello di feltro che ha in
testa sembra un ombrello, tanto è grande.
Ha una lunga barba, che però nasconde
nello scollo della giubba, così che i suoi
commilitoni dicono «tanto varrebbe
tagliarla, visto che non si vede». Lui se ne
frega e pensa che gli è utile per riparare la
gola dal vento, assecondando una piccola
mania che la madre gli ha ficcato in testa
da piccolo. Per i pochi anni in cui è rimasto
piccolo, visto che pareva già un uomo
quando non aveva ancora smesso di essere
ragazzo.
Theodor, invece, ha circa cinquant’anni.
Sembra un bambino vecchio, rugoso
e senza barba, a parte qualche pelo
disordinato sotto il mento. Parla poco e, a
dispetto della misera stazza, è un grande
attaccabrighe. Ha il coltello facile. Di lui
c’è poco da dire, perché poco racconta e
perché è meglio non fissarlo a lungo per
farsi un’idea più precisa.

Scrutano l’orizzonte verso Bolzano,
seguono con lo sguardo le nuovole
e vi riconoscono, ognuno secondo la
propria fantasia, figure straordinare:
draghi, cavalieri, balene, stinchi di maiale
fumanti. D’un tratto Theodor fa uno
scatto e si stacca dal muro. Si agita come
indemoniato gridando «La schiena! La
schiena!». Gerold lo guarda e capisce che
deve essersi infilato qualcosa, magari la
lucertola che se ne stava ferma tra i massi
della torre sopra la loro testa. Theodor
gli fa moto di aiutarlo e Gerold si mette
dietro di lui per vedere di fare qualcosa.
Theodor sente che la lucertola è scesa dalla
schiena e sta scivolando lungo una gamba.
La lucertola fa capolino dalla braga del
secco e, proprio in quel momento, Gerold
china la testa per guardare il collo del
compagno. Di colpo, un boccale buono
d’acqua piovana cola dal cappello e si
infila tra la nuca e la giubba del compagno.
Theodor si gira ed è livido di rabbia.
Gerold è un uomo previdente e, prima
che il bambino vecchio e attaccabrighe tiri
fuori il coltello, gli rifila un pugno in faccia
e lo stende. «Voi lì dentro, aiutatemi! Il
vecchio è svenuto!» grida l’omone sperando
che il compare non ricordi cosa è successo.
Storie di cose, luoghi e persone. A Merano e dintorni
 Una fine pioggerellina e sprazzi di sole, la
temperatura mite e una cerata in caso di
pioggia più intensa. Ho preso Kira e siamo
salite sul 213 che parte dalla stazione
ferroviaria di Merano e giunge a Tel, dove
inizia il sentiero della roggia di Lagundo.
Il primo tratto di strada, diciamo fino alla
piccola galleria, l’abbiamo fatto di corsa:
tirava il guinzaglio come una pazza e
poco le importava che a me interessasse
guardare la vista sulla Valle dell’Adige, le
belle villette e quei rettangolini di nuovo
azzurri delle piscine scoperchiate dopo
l’inverno, le colonne di pioggia sulle
convalli in lontananza che giocano con
la luce che di sbieco passa attraverso le
nuvole. La nostra corsa, la mia a dire il
vero, è terminata quando sono inciampata
nei pressi di alcune case: distratta dalle
piante messe in vendita da qualche
bambino su un banchetto improvvisato,
non avevo visto una radice sporgente e
sono finita faccia a terra. Nulla di grave,
assolutamente, ma nella caduta ho perso
il guinzaglio e pure Kira, che non si è
fermata a dimostrarmi la sua solidarietà. Il
pensiero che potesse perdersi o combinare
qualche guaio mi ha rimesso subito in
piedi e di corsa per riprenderla. L’ho
ritrovata qualche centinaio di metri più
avanti, in questa curiosa situazione: entrata
in un nodoso e contorto albero cavo,
era rimasta incastrata con la fibbia del
collare nei meandri del tronco. Un tronco
straordinario e chissà quanto antico, da cui
si dipartono rami ancora anch’essi nodosi
e tortuosi. Il legno, per una qualche magia
della natura, si mostra come avvitato su
sé stesso in una sorta di danza. Strano
come un albero possa prendere le forme
della sua negazione, il fuoco. Persa tra le
forme del tronco, carezzata dal frusciare
gentile di una pioggia che è fatta di fili
d’acqua, mi ha ridestato lo scorrere rapido
del guinzaglio tra i piedi. Kira, liberatasi
da sola, aveva ricominciato la sua fuga.
Senza nessuna voglia di rincorrerla, ho
continuato il sentiero a lenti passi, non
curandomi delle nuvole ormai plumbee e
borbottanti che si chiudevano sopra la mia
testa. Io sapevo che Kira sapeva che nella
tasca avevo dei croccantini per lei. Mi è
corsa incontro quando ormai ero prossima
alla fine del Waalweg, con la lingua a
penzoloni.
Non mi sento più intelligente del mio
cane, ma mi riconosco una più raffinata
capacità di gestione delle risorse. Una piccola
soddisfazione questa, durata fino a quando
il viso rigato dalla pioggia mi ha fatto
capire che il bambino che mi minacciava
con l’ombrello dal finestrino dell’autobus,
dopo che eravamo scese a Tel, voleva solo
mostrarmi cosa avevo dimenticato sul
sedile.

Lasciato il parcheggio di Avelengo
imbocchiamo il sentiero 2A. Non abbiamo
fatto colazione con la precisa intenzione di
arrivare alla malga Wurzeralm con più fame
possibile. Appena la strada si fa sentiero ed
entra nel bosco, passato lo stagno, ci sembra di
sentire un brusio in lontananza. Procedendo, il
brusio si fa voce, prima indistinta e poi sempre
più chiara: viene da un telefono appoggiato
dietro un sasso. «...la fornitura è stata sbagliata,
da noi e non da lei, lo capisco e mi scuso
ancora. So benissimo che lei è sempre stato
disponibile in ogni situazione…» dice una
voce dall’altra parte del microfono. Una voce
che sembra avere fiato infinito «...la stessa
quantità ordinata l’anno scorso ci siamo accorti
che non è sufficiente e i pacchetti dovrebbero
essere da 12 e non da 10 pezzi…». Una
voce irritante, ascoltando bene, dall’accento
indistinguibile, che marca le R e le L
come fossero doppie e che, lo vediamo
sul display, parla da più di un’ora. Rapiti
da questa cacofonia ritorniamo desti solo
quando un tipo arriva e prende il telefono
in mano: «L’avrei lasciato ancora lì» ci
dice guardandoci «ma alla malga piove ed
è meglio tornare a valle». Non sappiamo
se fidarci di un bontempone simile e
decidiamo di proseguire. L’incanto della
malga sotto la pioggia ripaga ogni fatica.
Si guardano. Si sorridono. Spalancano le
braccia e si abbracciano. Non si baciano, ma
sembrano annusarsi tra collo e orecchio. Ora
da distanza ravvicinata, fronte contro fronte,
si guardano di nuovo. Finalmente forse si
baciano, ma Anna guarda oltre un po’ per
discrezione e un po’ perché ha un obiettivo
preciso: arrivare prima di loro, che se ne
stanno in mezzo al sentiero ad amoreggiare,
in un punto preciso del prato che circonda
la chiesetta di Sant’Ippolito. Un punto
panoramico, che si affaccia a strapiombo sulla
valle e le permette di guardare verso Avelengo.
Da questa prospettiva, nei pomeriggi in cui
dopo la pioggia il sole si riprende il suo posto,
spesso si può ammirare l’arcobaleno. Forse
oggi è la giornata giusta e, anche se ha i piedi
freddi e umidi perché era meglio aspettare
ancora un po’ per calzare i sandali, questo
spettacolo lo vuole ammirare.
L’arcobaleno, a dirla tutta, è un pretesto. Si
è creata un rito da fare ogni primavera per,
dice lei, creare un ponte per unirsi al passato.
La collina di St. Hippolyt era frequentata già
seimila anni fa, vi sorgeva un luogo di culto.
In epoca romanica venne eretta una chiesetta,
ricostruita in epoca gotica. Nel medioevo, pare
che le streghe si riunissero qui per i loro sabba.
Dicono che è un luogo energetico, sicuramente è
un posto che ha molto da raccontare. Anna, da
quella sporgenza a strapiombo, guarda lontano
e cerca l’arcobaleno. Poi si siede su un sasso
ancora un po’ umido, chiude gli occhi e respira
profondamente. Si ascolta e per qualche istante
nella sua testa non ci sono pensieri. Delle risa
gioiose la riportano al presente, sono le due
persone che si abbracciavano lungo il sentiero.
Si gode la loro felicità come se fosse la sua e si
sente connessa ad un meraviglioso adesso.